Si è discusso di questo in occasione della giornata conclusiva di “Tipicità“, il festival dell’agroalimentare che da ormai diversi anni si tiene a Fermo, nel mese di Marzo.
Innanzitutto è opportuno chiedersi se sia ancora possibile considerare “straniero” un vitigno presente in un dato territorio e costantemente allevato in quella zona dopo 100 o 200 anni…
Per le persone vale la stessa cosa? Se io mi trasferissi in Australia e mettessi su famiglia, i miei figli sarebbero ancora stranieri? E i loro figli? E i loro nipoti?
Questo può valere anche per una pianta?
Oltretutto, mutazioni genetiche e selezioni clonali, portano a considerevoli modifiche quali-quantitative un vigneto che oggi è in produzione in California, invece che in Italia o in Francia.
E’ noto, ad esempio, che proprio in California ed in Oregon si utilizza lo Zinfandel, che altro non è che il nostro caro Primitivo. Trapiantato in America ormai da diverso tempo, è diventato, per i vignaioli d’oltreoceano, un vitigno autoctono, un qualcosa di appartenente alla loro cultura.
La storia dell’uomo ci insegna che siamo esseri erranti, capaci di adattarci a diversi climi e situazioni. Nel nostro vagare alla ricerca di migliori condizioni, i nostri predecessori hanno portato con sè cultura, idee, ma anche, soprattutto, tradizioni. Così l’arte di fare il vino e, con essa, di coltivare la vigna, si è diffusa in tutta il globo.
Inoltre è possibile incrociare diverse cultivar per ottenere una nuova varietà: come nel caso del Muller Thurgau o del nostro Incrocio Bruni.
3 sono i fattori determinati quando parliamo di vino: il territorio, inteso come caratteristiche geologiche del suolo sul quale la vigna cresce, il clima e la mano di chi coltiva la vigna e ne trasforma i preziosi chicchi d’uva in nettare diVino.
E’ necessario ricercare sempre l’optimum di queste 3 condizioni per favorire un risultato che sia davvero eccellente.
E’, allora, giusto sperimentare e provare ad ottenere qualcosa di straordinario, anche con vitigni che “storicamente” non ci apparterrebbero?
Sono potuto giungere ad una conclusione, assaggiando alcuni prodotti realizzati nelle Marche e nel bergamasco utilizzando esclusivamente vitigni internazionali: sono rimasto affascinato. Se questo è ciò che possiamo ottenere con il nostro terroir, ben venga qualche “figlio adottivo” nella nostra famiglia, pur mantenendo sempre amore e rispetto per i nostri “figli biologici”, talvolta molto impegnativi (come il Sangiovese ed il Verdicchio), ma capaci di renderci chiaramente identificabili ed unici al Mondo intero.
3 Comments
Sono pienamente d’accordo sull’utilizzo di vitigni internazionali.
Quando ci troviamo in enoteca, o in un qualsiasi posto dove possiamo comprare una bottiglia di vino, a guidare l’acquisto, sono diversi fattori: al primo posto metterei la piacevolezza che ci ha lasciato l’ultima volta che abbiamo degustato quel vino, a seguire, la curiosità verso un prodotto tipico, mai degustato, o un vino recensito in qualche rivista. E in ultimo il prezzo, che purtroppo in tempi di crisi porta il consumatore finale ad un acquisto talvolta mediocre pur di accompagnare il cibo con un bicchiere di vino.
Quindi tornando alla domanda la mia risposta è assolutamente si. Se regalano piacevolezza perché privarsi di ottimi vini solo perché non prodotti da vitigni autoctoni?
Inoltre sono del parere che sia meglio continuare a chiamare questi vitigni con l’appellativo di internazionali anche se, oramai, sono diventati dei “figli adottivi” totalmente alla pari di quelli considerati autoctoni, ma solo per non creare confusione o meglio per non rischiare di perdere la nostra tipicità.
a mio giudizio, bisogna ragionare in termini di “scambi reciproci di vitigni” tra nazioni vocate alla viticoltura, storicamente sempre avvenuti e, spesso, proficui. Bastino gli esempi eclatanti del Trebbiano Toscano, poi esportato con successo in Francia a costituire l’Ugni Blanc (base per Cognac ed Armagnac) e quello del ben più famoso sangiovese, vinificato anche in sud africa, napa valley ed austalia (grazie alla dote portata dai nostri migranti). E ce ne sarebbero altri. Pertanto, la policlonalità di alcuni grandi vitigni è da considerarsi ricchezza di sfumature che, a seconda del terroir in cui dimora, può esprimere ventagli di accezioni sempre diverse ed affascinanti, ovunque si trovi. E’ in quest’ottica, quella dell’arricchimento dell’esperienza enoica che, a mio parere, va inquadrato il fenomeno, e non in senso sterilmente campanilistico.
Bell’intervento. Ci offre sicuramente nuove prospettive sotto cui valutare il fenomeno della diffusione dei vitigni internazionali. Grazie!!