#ScienzAgrambientali – Le creme solari,
di Giulio Pellini
Durante l’estate, l’esposizione al sole può apportare numerosi effetti benefici alla nostra salute.
La luce solare è, infatti, in grado di normalizzare la pelle grassa e ha proprietà antimicotiche e antibatteriche.
È proprio attraverso l’esposizione ai raggi del sole che il nostro organismo produce la vitamina D in grado, tra le altre cose, di rafforzare le ossa. Senza contare che i raggi del sole aiutano anche ad attenuare e prevenire i sintomi di alcune malattie come l’artrite e i dolori ossei, oltre a diversi problemi della cute.
Tuttavia, non è “tutto oro quello che luccica”…infatti, come tutti sappiamo ormai benissimo, qualora l’esposizione ai raggi solari, avvenga senza le adeguate protezioni, si può andare incontro anche a gravi danni.
Tra i consigli dati dagli esperti per prevenire malattie e tumori della pelle, soprattutto nei mesi estivi, c’è sia quello di osservare un’attenta e graduale esposizione al sole, sia quello di fare uso di creme protettive, scelte in base al proprio fototipo di appartenenza.
Proprio queste creme, insieme a dentifrici, shampi, scrub, rossetti, eyeliner ed esfolianti, però, sono, ormai da anni al centro di studi scientifici per determinarne l’impatto sull’ambiente.
Diversi componenti di questi prodotti (para-aminobenzoati, cinammato, benzofeonone, dibenzoilmetano, biossido di titanio, ossido di zinco, parabeni, solfato di ammonio, trifosfato di pentasodio, etc.) sono stati identificati come dannosi per l’ambiente. Questi, però, non sono gli unici “indagati”: tutti i prodotti cosmetici, infatti, possono fa registrare al loro interno, in percentuali diverse, la presenza di microplastiche.
Si tratta di frammenti plastici di dimensione variabile tra 1 micron a 5 mm (Lassen et al, 2015).
Già nel lontano 2013, Blue Factory (startup finanziaria derivante dalla ESCP, la più antica ed una delle più prestigiose business school a livello mondiale), in collaborazione con Giandomenico Ardizzone ed i ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma, giunse alla conclusione, nel proprio lavoro, che le microplastiche possono arrivare a costituire una percentuale dall’1 fino al 90% del peso del prodotto, anche di marche rinomate.
Mediamente una persona produce 2,4 mg di microplastiche al giorno. Sempre nello stesso studio viene riportato che in Europa, nel 2013, solo per i prodotti di bellezza, sono state impiegate quasi cinquemila tonnellate di microplastiche, finite quasi tutte in mare attraverso gli scarichi.
Inoltre, secondo studi di settore, negli anni questo valore sta aumentando.
Come già dimostrato da diversi studi (Fossi et al., 2012, 2014; Collignon et al., 2014; Battaglia et al., 2015; Nadal et al., 2015; Romeo et al., 2015; Pedà et al., 2016; Pellini et al., in press), queste microplastiche immesse in mare possono essere ingerite dai pesci.
Tutto ciò, provoca diversi danni agli animali stessi: da problemi fisiologici fino a problemi a livello riproduttivo (Gregory, 2009; Avio et al., 2015; Cole et al., 2015); inoltre, questo potrebbe essere un problema anche per l’uomo. Il condizionale è d’obbligo, però, visto che allo stato attuale esistono studi sulla migrazione di queste microplastiche dal tratto gastrointestinale agli altri tessuti, solo in alcuni animali (come per esempio i topi o i molluschi bivalvi), ma non nel pesce.
Fortunatamente già dal 2008, con l’entrata in vigore della Direttiva del Consiglio Europero 2008/56/EC (Marine Strategy Framework Directive), che prevede il conseguimento di un “buono stato ambientale” entro il 2020, sta accrescendo al consapevolezza, e di conseguenza anche la ricerca di soluzioni, su questo problema.
Le microsfere presenti nei prodotti di cosmesi, inoltre, sono al centro della campagna #CleanSeas del Programma Onu per l’ambiente (Unep), che chiede ai governi di metterle al bando, insieme agli oggetti monouso di plastica, entro il 2022.
Da poco tempo la Scienza offre un’alternativa “bio” alle microsfere di plastica che si trovano nei prodotti per la cura della persona: nel 2017, infatti, l’Università inglese di Bath ha pubblicato uno studio in cui illustra la creazione di microsfere di cellulosa, biodegradabili e quindi non dannose per l’ambiente (clicca qui per approfondire ).
Come spiegano i ricercatori, “le microsfere usate nell’industria cosmetica sono spesso in polietilene o in polipropilene, polimeri derivati dal petrolio che impiegano centinaia di anni per degradarsi. Noi abbiamo sviluppato un modo di fare microsfere dalla cellulosa, che non solo proviene da una fonte rinnovabile, ma si biodegrada in zuccheri innocui”. Per cui, accanto ai prodotti che già da qualche anno presentano alternative naturali ai composti chimici dannosi, tra poco sarà possibile acquistare prodotti “Plastic Free”, riducendo così l’impatto sull’ambiente marino…e quindi sulla nostra qualità della vita!
Nel frattempo, ognuno di noi dovrebbe cercare di limitarsi nell’uso e nel consumo di tutti i prodotti contenenti microplastiche, anche se, come vedremo nei prossimi articoli, questo può non essere affatto facile…